E’ con viva trepidazione che mi accingo a dire soltanto qualcosa sul tema. Lo faccio consapevole che, prima ancora di parlare a voi, è un dialogo intenso con il mio cuore, anche perché, durante tutta la mia vita, ho sempre sentito la fecondità della beatitudine “Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia” (Mt 5,7).
La domanda che mi sono posta più volte è: Che cosa è la “Misericordia“?
Papa Francesco, nella sua Bolla d’indizione del Giubileo che stiamo vivendo, dice: “Misericordia è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda il fratello con occhi sinceri“.
Già San Giovanni XXIII, nel suo discorso d’inaugurazione del Concilio Vaticano II, aveva detto: “Oggi la Chiesa preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che della severità“.
Possiamo allora dire che la misericordia è una medicina per la nostra vita così spesso infarcita, non dico di odio e di vendetta, ma di indifferenza e di egoismo.
L’uomo ha tanto bisogno di misericordia. Fragile, minacciato, impaurito, assetato di giustizia, cerca disperatamente misericordia. Da Dio e dai fratelli. E’ stanco di sentirsi giudicato e di vedersi respinto: ha bisogno, invece, di sapersi amato, di sentirsi accolto e compreso.
Una stupenda definizione dell’uomo fu data dal Beato Paolo VI, quando disse che l’uomo è uno “sconfinato e fecondo bisogno d’amore“. Un bisogno d’amore… Infatti
Se guardiamo dentro di noi,
se giriamo lo sguardo intorno a noi,
se sappiamo penetrare oltre le maschere che spesso portiamo,
scorgiamo che ognuno di noi ha bisogno di essere amato quanto ha bisogno del pane e, talvolta, più del pane.
San Basilio il Grande chiarisce meglio il concetto, sottolineando che “lo spirito dell’uomo ha in sé la capacità e anche il bisogno di amare“.
Che dice la Scrittura in proposito?
Nel Cantico dei Cantici leggiamo: “Le grandi acque non possono spegnere l’amore” (Ct 8,7).
Quali sono queste grandi acque per noi consacrati?
Sono i grigiori dei giorni, la monotonia delle ore che si susseguono, la stanchezza, a volte la delusione, la difficoltà di vivere gomito a gomito.
Le grandi acque sono: il venir meno nel fervore, le amarezze improvvise, le tentazioni che ci scombussolano.
“Le grandi acque non possono spegnere l’amore“, è vero, ma a condizione che l’amore si viva, che sia continuamente rinnovato, costantemente alimentato, che sia quotidianamente purificato e approfondito.
I poveri d’amore stanno vicino a noi. In certo modo siamo tutti poveri di amore e tutti abbiamo bisogno di misericordia. Dobbiamo, però, dire che non è sempre facile vivere la misericordia, soprattutto la misericordia spirituale. E’ molto più immediato fare, agire, operare. E’ decisivo allora saper cogliere il cuore delle cose.
Una delle sette opere di misericordia spirituale è: Perdonare le offese.
“Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi” (Col 3,13).
Perdonare, però, non è facile, anche se noi, per esperienza, sappiamo che, come diceva un grande, quando si ha un ideale anche gli scogli diventano strada. Ma bisogna che questo l’ideale sia sempre luminoso e affascinante.
Se siamo sinceri con noi stessi, dobbiamo confessare che tante volte abbiamo scoperto e scopriamo che il Signore sa piegare la durezza del nostro cuore e, in un mondo lacerato da lotte e discordie, lo ha reso e continua a renderlo disponibile alla riconciliazione e al perdono.
Noi persone consacrate abbiamo il vantaggio di vivere in una comunità con tante risorse di intelligenza, di operosità, di disponibilità. Queste risorse, però, attendono di essere convogliate in un unico flusso di comunione, contro le facili tentazioni dell’individualismo e dell’isolamento, altrimenti si contribuisce a tessere una fitta rete di rapporti in cui ci sentiamo soltanto dei numeri.
A volte ho sentito dire da qualcuno:
“Spesso l’altro ti passa accanto senza neanche accorgersi di te.
In comunità ti senti di tutti e di nessuno.
Ti cercano finché vali, finché fai comodo, finché sei in buona salute.
Poi ti ritrovi a fare i conti con la tua solitudine“.
Devo confessare che queste considerazioni mi danno sempre tanta tristezza. Certamente ognuno ha da fare; oggi si corre vertiginosamente e nervosamente. Non si ha più il tempo di guardarsi negli occhi, di raccontarsi le cose, di farsi il dono della tenerezza.
Ma, allora, a che cosa valgono le risorse di intelligenza e di operosità, a cui accennavo?
Perché in certi momenti della vita sapere non basta; c’è tanta gente che sa e non sa amare e non sa perdonare.
Sapere non basta! Non basta nei momenti di tempesta, quando si scatena l’uragano della vita, non basta nei momenti di tentazione, di solitudine, di paura.
sapere non basta; occorre aver accolto e continuare ad accogliere col cuore il fratello.
Un grande filosofo contemporaneo, Emanuel Levinas, ha detto:
“Il primo millennio è stato contrassegnato dalla ricerca dell’essere;
il secondo dalla ricerca dell’io;
il terzo sarà (dovrebbe essere, dico io) invece caratterizzato dalla ricerca dell’altro“.
La ricerca dell’altro, quindi, l’impegno nel dialogo, un dialogo vero che ci permette di crescere e creare comunione.
Il guaio nostro è che quando le cose vanno male, quando ci sentiamo feriti, per prima cosa che facciamo? Chiudiamo, abbassiamo il sipario e quindi togliamo la comunicazione; rimaniamo chiusi in noi stessi, chiusi dentro il nostro egoismo, dentro la cosiddetta nostra sensibilità, dentro le nostre esperienze e non riusciamo a uscirne per aprirci agli altri.
Una delle cause più forti del malessere di noi consacrati è proprio la mancanza di perdono, dato e ricevuto, mancanza che procura spirito di animosità e di rivalsa. Vogliamo comprensione e perdono, ma noi perdoniamo sempre le offese che riceviamo? o, come talvolta si sente dire:
Non tocca a me chiedere perdono… lui (lei) è più giovane…
e poi io che cosa ho fatto di male?…
ma lui (lei) si rende conto di come mi ha trattato, di cosa mi ha detto?
Eppure sappiamo ciò che Paolo scrive ai Romani: “Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole” (13,8).
La mia Fondatrice, la venerabile Brigida Postorino, diceva a noi Suore: “Quante volte la parola spontanea vorrebbe la rivincita, quante volte il desiderio di rivalsa ci spinge. La persona generosa invece ricambia la freddura con l’amore, la sgarberia con la dolcezza, con la squisitezza dei modi, l’indifferenza con l’aiuto” (C 1916).
L’abbiamo già detto, il perdono fraterno è una cosa difficile, anche perché se vogliamo la riconciliazione completa, non deve volerla una sola persona, dobbiamo essere in due a volerla.
E’ vero, il perdono e la riconciliazione si basano sulla chiarezza e sulla verità di ciò che può essere stato causa di tensione e di scontro; prima di chiedere o dare il perdono, però, devo togliere l’acredine dal mio animo, devo prima rasserenarmi e poi si può arrivare alle spiegazioni…. (Non lasciamo passare, però, molto tempo prima di rasserenarci). Molte volte basta un sorriso ed è fatto il primo passo; avere cioè l’atteggiamento di chi non punta il dito, ma porge la mano aperta del perdono.
Non mancano grandi esempi di richiesta e di dono di perdono, anche nella storia della Chiesa. Ricordiamo l’incontro, a Gerusalemme, nel 1964, del Beato Paolo VI con il Patriarca Athenagoras e gli incontri voluti dai Papi più vicini a noi: San Giovanni Paolo II, Benedetto XVI ed ora Papa Francesco.
E noi, nel nostro piccolo, come ci comportiamo?
Del salmo 23, teniamo presente quel versetto che dice: “Chi salirà il monte del Signore? Chi starà nel suo luogo santo?“. A quali condizioni possiamo presentarci al Signore? La risposta è nel Salmo: “Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non giura a danno del suo prossimo“.
E cuore puro vuol dire cuore semplice. Semplice, “simplex”, cioè: “sine plica“, senza piega; perché tra una piega e l’altra non si sa mai quello che si può nascondere.
Chiediamoci: abbiamo noi un cuore semplice, trasparente, un cuore umile che non sa e non vuole tenere i ponti tagliati con l’altro?
Tanti, tra i consacrati, sono eternamente inquieti, perché non sono riconciliati. Riconciliati con chi? Prima di tutto con se stessi, con la propria vocazione e poi con gli altri. Dobbiamo diventare per il nostro prossimo testimoni dell’amore. Dobbiamo far sentire al fratello, alla sorella che “amore, pietà e tenerezza è il Signore” (Sal 110).
Purtroppo siamo sempre pronti a lamentarci della dimenticanza, del torto subito, e non ci accorgiamo di quello che noi stessi pratichiamo a danno degli altri. Quante volte, dopo un’offesa, non riusciamo a prendere sonno la notte; siamo andati a letto non ricordandoci di quanto San Paolo scrive agli Efesini: “
E se passano giorni, mesi, senza che ci sia l’esperienza corroborante del perdono, dell’amore, della tenerezza, è evidente che il logorìo della vita, contribuisce a svuotarci anche di senso.
E’ pienamente naturale che con alcune persone ci troviamo subito bene; con altre, invece, non riusciamo ad ingranare. E ci vuole coraggio nel disporci ad accettare chi ci sembra che ci ostacoli. E’ faticoso, ma col perdono, tanti spigoli vengono smussati. Ed è tutto di guadagnato, perché, di riscontro, si trova tranquillità e serenità.
In caso contrario, se non si ha il coraggio di perdonare, si resterà sempre in una situazione di conflitto, di insoddisfazione, di pesantezza e, in definitiva, facciamo male a noi stessi.
Questa è la nostra vita, soprattutto la vita comune; ma non ricordiamo che tutto può essere recuperato nella preghiera? Abbiamo fatto l’esperienza di pregare, per una settimana, per un mese, 10 minuti ogni giorno, proprio per quel fratello, per quella sorella con cui non riusciamo ad andare d’accordo e quindi non riusciamo ad esprimergli il perdono e la tenerezza?
Qualcuno può obiettare: che c’entra la preghiera? a volte ci vuole altro per saper concedere il perdono, dopo un’offesa. Eppure io dico, per esperienza, che le cose, dopo la preghiera, si vedono diversamente, si vivono diversamente, proprio perché, in quella preghiera, sono costretta a guardarmi dentro con coraggio e a riprendere in mano la mia vita. Infatti, per saper perdonare, occorre fare l’esperienza del proprio limite, occorre toccare con mano il proprio nulla e sapersi ridimensionare.
Certo, il nostro vivere, soprattutto in comunità, non è mai semplice; infatti non è facile far ruotare in armonia persone molto diverse fra loro per carattere, formazione, cultura e, di conseguenza, vi sono continuamente motivi per urtare ed essere urtati.
Come reagiamo a tutto questo?
La risposta la possiamo trovare nel salmo 26: “In te mi rifugio, Signore“, non nella consorella perché mi dia ragione contro la responsabile o contro l’altra consorella. Questo è tempo perso, anzi serve solo ad avvelenare il clima generale.
Tra noi può anche succedere, e succede, che io mi senta offesa, mi sento umiliata; si è creato uno stato di sofferenza o con la comunità, o con una singola persona della comunità e allora io mi tiro indietro anche nella preghiera comune, perché non voglio vedere nessuno.
E’ allora, invece, che il Signore mi dà appuntamento là, con quel gruppo, dove magari c’è il carattere più difficile, con cui non riesco a capirmi facilmente, da cui non mi sento compresa; caratteri che facilmente entrano in frizione e stridono.
Perdonare come sono stata e vengo continuamente perdonata io da Dio.
E’ poi bello superarsi in certi momenti; Come? L’ho già detto:
con l’ascolto, il dialogo, il rispetto reciproco soprattutto, il mutuo sostegno, così si affinano i temperamenti e si fanno scendere piogge di grazia sulla nostra vita e sulla comunità intera.
Un proverbio, non ricordo più se cinese o giapponese, dice: “Il tuo avversario è il tuo più grande benefattore“. Infatti quello che io che non sopporto o che penso non mi sopporti, è colui che mi dà l’occasione, se sono una persona di buon senso, però, se sono umile, mi dà l’occasione di correggermi e crescere (anche se son vecchia).
Ognuno di noi dovrebbe sempre tenere presente ciò che dice il Salmo 83: “Beato chi trova in te la sua forza, o Signore (…) cresce lungo il cammino il suo vigore“. Ma come, camminando, vivendo, sopportando le fatiche della vita comune e talvolta anche le offese, non ci si stanca, anzi cresce il vigore?
A me fa sempre tanta impressione vedere, per fortuna soltanto qualche volta, persone che quando hanno deciso di diventare sacerdoti o religiose erano splendenti, come ho già sottolineato, erano luminosi, leggevi nei loro occhi la felicità di essere stati scelti dal Signore; li incontri dopo qualche anno e sono spenti.
Come mai? Non è cresciuto il vigore lungo il loro cammino?
Come mai sono diventati tristi e talvolta irascibili, tanto da non sopportare alcunché e da non saper perdonare? con la tentazione di sgusciare, di sottrarsi, di arenarsi, di tornare indietro e riprendersi al dettaglio quello che, in un momento di generosità, avevano donato all’ingrosso.
Come mai?
La risposta è chiara: è mancato e manca l’impegno durante il viaggio, un viaggio che porta con sé tutte le sorprese, le sofferenze, i rischi, le difficoltà.
E non si ha la forza o la volontà di vincersi.
Certo se dovessimo contare solo sulle nostre forze, è chiaro che tutto è fallimentare; ma noi non contiamo soltanto sulle nostre risorse; noi contiamo sulla fedeltà di Dio. “Se noi siamo infedeli, Lui rimane fedele” (2Tim 2,13) dice San Paolo.
Mi piace concludere con quanto scrisse Don Tonino Bello, il quale riferiva di aver letto da qualche parte che “gli uomini sono angeli con un’ala soltanto; possono volare solo rimanendo abbracciati“.
Mi permetto, allora, un consiglio: quando tra noi i rapporti sono difficili, quando si respira aria pesante, quando regna la sfiducia, il disfattismo, il disimpegno dobbiamo ripetere l’invocazione delle Lodi del martedì della I settimana del Salterio: “Signore, fa’ che nessuno sia rattristato per causa mia“,
perché tutti siamo chiamati a creare comunione,
a nessuno è lecito mettersi in veste di spettatore
o peggio ancora mettersi sul trono del giudice,
ma metterci tutti nell’atteggiamento di chi accoglie, comprende, ama e perdona.
suor Loretana Grosso, F.M.I.